(Pubblico questo articolo del collega e amico T3nd3rsurr3nd3r. Buona lettura)
Il bullismo è oggi una piaga sociale. Come mai se ne parla così tanto rispetto a qualche anno fa? I motivi sono molteplici.
Innanzitutto lo sviluppo delle forme di comunicazioni facilità una più veloce diffusione delle notizie, permettendo pero’ cosi’ ai sociologi di conoscere fatti e circostanze che diversamente sarebbero rimaste oscure.
In secondo luogo i mezzi attraverso cui fruiscono queste informazioni sono via via sempre più accessibili indipendentemente dall'età dell'individuo. Basti pensare ad internet e all'utilizzo talvolta improprio di questo magnifico mezzo; sicuramente eccessivo, se consideriamo le ore medie giornaliere che un bambino italiano passa nella rete.
Poi come non citare il telefono cellulare, vero e proprio passatempo tipico della post-modernità, nonchè utensile preferito di tutti gli italiani.
Inevitabilmente è diventato il simbolo della deriva egocentrista degli studenti di medie ed elementari, l'oggetto che fa parte di un mondo, quello scolastico, in cui non dovrebbe avere nessuno spazio, almeno tenendo conto della funzione prettamente educativa della scuola.
Ma perchè i ragazzini sembrano così ossessionati dal filmare le gesta di bulli e bulletti alle prese con poveri malcapitati, magari down, o con inesperte insegnanti, sempre più spesso prive di quell'autorità, per carità bonaria, che in quanto tali dovrebbero possedere?
Il problema va sicuramente risolto tenendo conto di vari elementi. L'educazione è uno di questi.
Purtroppo o c'è l'hai o ne sei privo. Il ruolo dei genitori è fondamentale perchè difficilmente si acquisiscono tali insegnamenti in una società costruita sul predominio dell'apparire sull'essere, dove la collettività e il senso civico sono subordinati agli interessi personali.
Gli stereotipi che ci vengono quotidianamente imposti dai media finiscono poi per annientare lo spirito critico del ragazzo che finisce così per imitare le azioni degli amici. Ecco un tipico esempio di sprecato utilizzo delle risorse tecnologiche: il video immesso nella rete finisce per essere scaricato nei computer e scambiato, e così scene alquanto stupide, come il ragazzino che prende in giro il professore, diventano veri e propri cult per i giovanissimi di oggi. Monumenti da emulare ad ogni costo perchè necessari per ottenere il rispetto del branco.
A volte mi chiedo se siamo più felici come razza umana, se il mondo è fondamentalmente un luogo migliore grazie alla scienza e alla tecnologia..La risposta è che tecnologia e scienza non bastano a renderci felici.
La realtà da cui scaturisce tutto ciò è una società sempre più sintetica, virtuale, priva degli autentici valori umani. Facciamo la spesa da casa, navighiamo su internet, ma, allo stesso tempo ci sentiamo più vuoti, più soli, e più isolati l'uno dall'altro che in qualsiasi altro periodo della storia dell'uomo.
Mi sembra alquanto ovvio che senza codici di comportamento civili, siano essi stabiliti dalla religione o dalla giurisprudenza poco importa, il nostro tessuto sociale si disintegrerà nel giro di pochi decenni. Il cattivo utilizzo delle risorse tecnologiche è pari all'uso dispersivo delle risorse energetiche, sprechiamo miliardi di euro per il riscaldamento domestico senza nemmeno accorgercene. Le istituzioni, da cui dipende il processo educativo, sono le prime uniche vere responsabili.
Ad esempio si dovrebbe investire seriamente sull'istruzione, con riforme strutturali mai adottate prima.
In Svezia i libri non sono così cari, possiedono un sistema suddiviso secondo particolari criteri, mettendo a disposizione delle famiglie i fondi necessari per una completa istruzione del bambino. Qui da noi invece sono tutelati gli interessi degli editori e sarebbe ora di cambiare questa farsa assurda, in quanto la cultura è un diritto sacrosanto di ognuno di noi, per giunta, non negoziabile.
T3nd3rSurr3nd3r
Blog di politica, attualità, ambiente, società, e varie. Un'isola di riflessione in un mare mosso di informazione.
domenica 29 aprile 2007
mercoledì 25 aprile 2007
Il 25 aprile è di destra o di sinistra?
In Italia esistono anniversari nazionali di destra e di sinistra. Insolito, ma non c'è da meravigliarsene, dopo decenni di politica basata su ideologie e soprattutto su chiacchiere. Con l'avvento dei vari TG, della tv commerciale e di Bruno Vespa questa sterile quanto inutile dicotomia destra-sinistra si è consolidata nella nostra testa e continua a distrarre la gente e rovinare il paese.
Il 25 aprile è festa nazionale, anniversario della liberazione d'Italia. Ogni anno si svolgono attività in tutta Italia per ricordare questa data simbolo della liberazione dell'Italia dalla dittatura fascista e dall'esercito occupante nazista. Quei poveri "vecchi" che parteciparono sono invitati a parlare nelle scuole ad una generazione che ormai non ha i mezzi per capire l'importanza della resistenza e il pericolo di qualsiasi dittatura, sia essa comunista o fascista come in questo caso. Noi giovani siamo nati in pace e non abbiamo dovuto muovere un dito per ottenere quella libertà di cui tanto si parla.
Il mondo politico, con la sua polemica annuale, non aiuta certo la memoria. Anche grazie all'attività di appropriazione da parte della sinistra italiana, il 25 aprile è considerata ormai una festa di sinistra, spesso e volentieri ignorata dai politici di destra che continuano a considerarla una festa per comunisti, forse per non scontentare i partitini neofascisti che facevano parte della ex-Casa delle libertà. Basti ricordare che Berlusconi da quando è sceso in politica non ha mai partecipato ad alcuna manifestazione, nemmeno dietro invito dei vari presidenti della Repubblica.
Anni di disinformazione televisiva hanno fatto sì che oggi gli italiani credono davvero che la Resisteza sia stato un movimento comunista e politico. Eppure basta aprire un buon manuale di storia (o wikipedia), che tutti abbiamo in casa, per imparare che fu un movimento popolare trasversale, a prevalenza comunista ma che vide insieme cattolici, liberali, socialisti, azionisti, monarchici. Una repulsione fisiologica, spontanea, popolare e spesso apolitica, dopo anni di regime e guerra, che praticamente tutti i paesi del mondo hanno conosciuto dopo un periodo più o meno lungo di dittatura. Nè di sinistra nè di destra, ma un movimento naturale di coscienza.
Fu anche una guerra civile, con tutti i suoi errori ed orrori che è inutile negare perchè documentati. Ma ricordare la resistenza, ricordare i valori dell'antifascismo non significa automaticamente essere stalinisti o rivoluzionari, ed è questo il messaggio ridicolo e banale che una parte politica ha voluto far passare, riuscendoci, ed offuscando in tal modo il significato che questa lotta ha avuto per il nostro paese.
I movimenti e i partiti che hanno partecipato alla Resistenza infatti, dopo la vittoria contro i nazifascisti, hanno formato quel fronte politico che in qualche anno ha pensato e scritto la Costituzione del 1948. Costituzione che contiene principi innovativi e fondamentali, ma che purtroppo non è stata messa in atto concretamente nei decenni a venire.
Anche per questo è importante ricordare chi sacrificò la propria vita con l'unico scopo di superare la buia parentesi dittatoriale e dare un futuro migliore all'Italia. Il 25 aprile dovremmo festeggiarlo ogni giorno impegnandoci ad utilizzare bene questa libertà di cui, seppur con alti e bassi, godiamo.
Il 25 aprile è festa nazionale, anniversario della liberazione d'Italia. Ogni anno si svolgono attività in tutta Italia per ricordare questa data simbolo della liberazione dell'Italia dalla dittatura fascista e dall'esercito occupante nazista. Quei poveri "vecchi" che parteciparono sono invitati a parlare nelle scuole ad una generazione che ormai non ha i mezzi per capire l'importanza della resistenza e il pericolo di qualsiasi dittatura, sia essa comunista o fascista come in questo caso. Noi giovani siamo nati in pace e non abbiamo dovuto muovere un dito per ottenere quella libertà di cui tanto si parla.
Il mondo politico, con la sua polemica annuale, non aiuta certo la memoria. Anche grazie all'attività di appropriazione da parte della sinistra italiana, il 25 aprile è considerata ormai una festa di sinistra, spesso e volentieri ignorata dai politici di destra che continuano a considerarla una festa per comunisti, forse per non scontentare i partitini neofascisti che facevano parte della ex-Casa delle libertà. Basti ricordare che Berlusconi da quando è sceso in politica non ha mai partecipato ad alcuna manifestazione, nemmeno dietro invito dei vari presidenti della Repubblica.
Anni di disinformazione televisiva hanno fatto sì che oggi gli italiani credono davvero che la Resisteza sia stato un movimento comunista e politico. Eppure basta aprire un buon manuale di storia (o wikipedia), che tutti abbiamo in casa, per imparare che fu un movimento popolare trasversale, a prevalenza comunista ma che vide insieme cattolici, liberali, socialisti, azionisti, monarchici. Una repulsione fisiologica, spontanea, popolare e spesso apolitica, dopo anni di regime e guerra, che praticamente tutti i paesi del mondo hanno conosciuto dopo un periodo più o meno lungo di dittatura. Nè di sinistra nè di destra, ma un movimento naturale di coscienza.
Fu anche una guerra civile, con tutti i suoi errori ed orrori che è inutile negare perchè documentati. Ma ricordare la resistenza, ricordare i valori dell'antifascismo non significa automaticamente essere stalinisti o rivoluzionari, ed è questo il messaggio ridicolo e banale che una parte politica ha voluto far passare, riuscendoci, ed offuscando in tal modo il significato che questa lotta ha avuto per il nostro paese.
I movimenti e i partiti che hanno partecipato alla Resistenza infatti, dopo la vittoria contro i nazifascisti, hanno formato quel fronte politico che in qualche anno ha pensato e scritto la Costituzione del 1948. Costituzione che contiene principi innovativi e fondamentali, ma che purtroppo non è stata messa in atto concretamente nei decenni a venire.
Anche per questo è importante ricordare chi sacrificò la propria vita con l'unico scopo di superare la buia parentesi dittatoriale e dare un futuro migliore all'Italia. Il 25 aprile dovremmo festeggiarlo ogni giorno impegnandoci ad utilizzare bene questa libertà di cui, seppur con alti e bassi, godiamo.
giovedì 19 aprile 2007
Prodi Sensei
Il Giappone è forse lo stato simbolo della modernità, dell'efficienza, della corsa continua all'innovazione tecnologica, di una industria sempre pronta a finanziare e sfruttare le scoperte della ricerca scientifica.
Un paese che dopo aver perso milioni di suoi cittadini durante la seconda guerra mondiale, ha reagito con forza mettendo al bando concretamente, e non con le chiacchiere come nel nostro paese, la guerra; l'articolo 9 della costituzione è dedicato completamente alla pace, e afferma che "il popolo giapponese rinuncia per sempre alla guerra come diritto di ogni stato sovrano e all'uso della forza e della minaccia come mezzo per risolvere le dispute internazionali. Al fine di rispettare questo scopo, non saranno mantenute forze terrestri, aere e navali, così come ogni altro potenziale bellico". Parole che dovrebbero servire da esempio per la nostra Costituzione, ricca di principi quasi mai rispettati.
Il Giappone non è un paese perfetto, ha tanti difetti come la sfrenata corsa alla produttività che comporta numerosi problemi sociali tra i lavoratori, che le cronache spesso ci descrivono come inquadrati, disciplinati e per questo sofferenti, sempre pronti a sacrificare la loro sfera privata per l'azienda.
Il nostro presidente del consiglio, Romano Prodi, in questi giorni è in visita ufficiale proprio in Giappone, dal quale continua a seguire il telefilm semi-comico a puntate made in Italy, "il partito democratico".
Qualche giorno fa, il 17 aprile, era all'università di Tokyo a parlare agli studenti che, chissà per quale motivo, erano interessati al partito dell'Ulivo. Prodi ha illuminato la platea spiegando che "l'obiettivo era quello di mettere insieme le forze riformiste che avevano una diversa origine e fino ad allora erano diverse tra loro. E per questo volevamo creare un grande partito di Centrosinistra".
Agli studenti, già piuttosto divertiti dai racconti della partitocrazia italiana, il professore non ha risparmiato la spiegazione sul forse nascente partito democratico: "Nei prossimi giorni ci sono i congressi dei nostri due più grandi partiti, che si sciolgono per unirsi.[...] Parte una grande avventura che si misura con il Paese non contro i partiti, ma oltre i partiti, anche perché gli stessi partiti lo hanno voluto così ampio ed esteso".
Cosa? Partiti che si sciolgono per unirsi. Poveri giapponesi, chi prova a spiegargli cos'è il partito democratico? Chi ha il coraggio di dirgli che in Italia gli anziani della politica stanno febbrilmente lavorando per creare il partito "del futuro", una creatura dai contorni ancora sfumati? Settantenni che progettano un futuro che non vedranno mai. Un partito che si professa come nuovo, ma è già vecchio prima di nascere, e rappresenta solo un nuovo calderone in cui troveremo i politici che hanno già fatto abbastanza danni all'Italia per decenni.
I giovani universitari di Tokyo avrebbero difficoltà a capire il "Bel Paese" e la nostra comica classe politica, considerando inoltre che il loro primo ministro, Shinzo Abe, con i suoi 53 anni è un giovincello se paragonato ai 68 di Prodi e ad altri matusalemme che dominano la scena politica.
Quando si dice "Il lontano Oriente", in tutti i sensi.
Un paese che dopo aver perso milioni di suoi cittadini durante la seconda guerra mondiale, ha reagito con forza mettendo al bando concretamente, e non con le chiacchiere come nel nostro paese, la guerra; l'articolo 9 della costituzione è dedicato completamente alla pace, e afferma che "il popolo giapponese rinuncia per sempre alla guerra come diritto di ogni stato sovrano e all'uso della forza e della minaccia come mezzo per risolvere le dispute internazionali. Al fine di rispettare questo scopo, non saranno mantenute forze terrestri, aere e navali, così come ogni altro potenziale bellico". Parole che dovrebbero servire da esempio per la nostra Costituzione, ricca di principi quasi mai rispettati.
Il Giappone non è un paese perfetto, ha tanti difetti come la sfrenata corsa alla produttività che comporta numerosi problemi sociali tra i lavoratori, che le cronache spesso ci descrivono come inquadrati, disciplinati e per questo sofferenti, sempre pronti a sacrificare la loro sfera privata per l'azienda.
Il nostro presidente del consiglio, Romano Prodi, in questi giorni è in visita ufficiale proprio in Giappone, dal quale continua a seguire il telefilm semi-comico a puntate made in Italy, "il partito democratico".
Qualche giorno fa, il 17 aprile, era all'università di Tokyo a parlare agli studenti che, chissà per quale motivo, erano interessati al partito dell'Ulivo. Prodi ha illuminato la platea spiegando che "l'obiettivo era quello di mettere insieme le forze riformiste che avevano una diversa origine e fino ad allora erano diverse tra loro. E per questo volevamo creare un grande partito di Centrosinistra".
Agli studenti, già piuttosto divertiti dai racconti della partitocrazia italiana, il professore non ha risparmiato la spiegazione sul forse nascente partito democratico: "Nei prossimi giorni ci sono i congressi dei nostri due più grandi partiti, che si sciolgono per unirsi.[...] Parte una grande avventura che si misura con il Paese non contro i partiti, ma oltre i partiti, anche perché gli stessi partiti lo hanno voluto così ampio ed esteso".
Cosa? Partiti che si sciolgono per unirsi. Poveri giapponesi, chi prova a spiegargli cos'è il partito democratico? Chi ha il coraggio di dirgli che in Italia gli anziani della politica stanno febbrilmente lavorando per creare il partito "del futuro", una creatura dai contorni ancora sfumati? Settantenni che progettano un futuro che non vedranno mai. Un partito che si professa come nuovo, ma è già vecchio prima di nascere, e rappresenta solo un nuovo calderone in cui troveremo i politici che hanno già fatto abbastanza danni all'Italia per decenni.
I giovani universitari di Tokyo avrebbero difficoltà a capire il "Bel Paese" e la nostra comica classe politica, considerando inoltre che il loro primo ministro, Shinzo Abe, con i suoi 53 anni è un giovincello se paragonato ai 68 di Prodi e ad altri matusalemme che dominano la scena politica.
Quando si dice "Il lontano Oriente", in tutti i sensi.
venerdì 13 aprile 2007
Il telefono, la sua voce
Oggi vi propongo un articolo di Marco Travaglio sulla vicenda Telecom, che come sempre fa riflettere sulla nostra intera classe politica, senza distinzioni tra buoni e cattivi, destra e sinistra.
Mi piacerebbe avere tempo di commentare a fondo la vicenda, ma non ne ho e voglio solo aggiungere un paio di commenti.
Primo, ribadisco un concetto che trascurano tutti i politici: la rete telefonica è stata costruita con soldi pubblici, quindi nostri, e DEVE restare pubblica. Smettiamola di riempirci di parole senza senso come libero mercato solo perchè va di moda. Non può essere venduta al primo finanziere di turno che ne sfrutterà i profitti a scapito del servizio.
Secondo: è una vergogna avere grandi imprenditori e finanzieri talmente corrotti e immorali da far quasi desiderare che siano degli stranieri a controllare i nostri servizi pubblici: perlomeno questi eviteranno i clientelismi e i giochi di potere che in Italia sono il pane quotidiano. Ma mi domando: a questo punto non faremmo prima a importare anche i politici, magari dai paesi del nord europa?
Gli elettori dell'Unione, si sa, sono nati per soffrire. Ma qui si esagera. Un anno fa, in piena campagna elettorale, i leader erano tutti impegnati a giurare che stavolta non si sarebbero dimenticati del conflitto d'interessi. Avrebbero smantellato la Gasparri, insieme a tutte le altre leggi vergogna. Avrebbero fatto l'antitrust per levare almeno una rete a Mediaset (come da sentenze della Consulta) e per abbassare i tetti pubblicitari. Ora si legge che Berlusconi sarebbe sotto assedio perché un pezzo di Unione e alcuni ministri del governo Prodi vorrebbero tanto che lanciasse un'offerta per Telecom, per sbarrare la strada ai terribili stranieri, americani o messicani. Come se in Messico e in America esistesse qualcosa di peggio dei «capitani coraggiosi» Colaninno, Gnutti e Consorte che la comprarono nel '99 a debito, cioè coi soldi della banche, e ne uscirono nel 2001 con plusvalenze da paura, per rivenderla a Trucchetti Provera che a sua volta la comprò coi soldi delle banche e la pagò coi soldi della Telecom medesima. Cioè dei piccoli e medi azionisti. Risultato: un'azienda sana nel '99 oggi ha 43 miliardi di euro di debiti e qualche decina di dirigenti ed ex dirigenti inquisiti o arrestati per spionaggio, associazione a delinquere e altre amenità.
Fermo restando che la rete telefonica è stata costruita con soldi nostri e dunque dovrebbe restare pubblica, è certo che anche un compratore delle Isole Andamane garantisce livelli di managerialità e di eticità nettamente superiori a quelli degli ultimi italianissimi controllori. Sappiamo bene a che cosa pensano i politici italiani quando difendono la «italianità» di qualcosa. «Il patriottismo - diceva Samuel Johnson, come ricorda Bill Emmott sul Corriere - è l'ultimo rifugio del mascalzoni».
L'ultima volta che la casta politica, col governatore Fazio al seguito, difese l’«italianità della banche», fu per coprire le scalate illecite dei vari Fiorani, Gnutti, Ricucci, Coppola, Consorte, Sacchetti. Poi si scoprì che Fiorani derubava i correntisti della Popolare di Lodi, e ambiva a fare altrettanto con quelli dell'Antonveneta. Se passa lo straniero in Telecom, sarà più difficile piazzargli i soliti famigli, portaborse, spioni, fidanzate, amanti, figli e figliocci di regime: questo è il problema.
Il ministro Paolo Gentiloni dichiara al Sole-24 ore che, se nascerà una cordata alternativa a quella americana, non verranno posti paletti a Mediaset: «II governo è favorevolissimo a che Mediaset diversifichi l'impegno», purché non acquisisca una quota di controllo perché la Gasparri lo vieterebbe. Risulta che Piero Fassino abbia dichiarato a Sky che «Mediaset è un operatore del settore e quindi può fare un'offerta». Il Foglio parla di «incoraggiamenti dalemiani» a Berlusconi, e alcune dichiarazioni del senatore Nicola Latorre vanno in questa direzione. Confalonieri se la ride: «Ora il centrosinistra fa il tifo per Mediaset e si appella a Berlusconi in nome della italianità di Telecom... Fanno il tifo. La verità è che siamo funzionali al loro progetto loro progetto perché alle banche italiane servirebbe un socio industriale per Telecom». E già detta le condizioni: «Gentiloni faccia il bravo: investire nei telefoni vuoi dire metterci tanti soldi, quindi bisogna che Mediaset non ne perda nel comparto tv».
Forse qualcuno dimentica che anche le aziende telefoniche, come quelle tv, operano in regime di concessione dallo Stato, dunque Berlusconi è ineleggibile già in base alla legge del 1957, e lo sarebbe doppiamente se entrasse nella telefonia. Salvo perpetuare lo spettacolo pietoso di un tizio che, al governo o in Parlamento, dà le concessioni a se stesso (e nega le frequenze a chi non fa parte della banda, tipo Di Stefano, che nel '99 ha vinto la concessione per Europa7, ma non può trasmettere perché Rete4 continua a trasmettere su terrestre, in perenne proroga).
Viene in mente quel che accadde nel 1995, quando il Cavaliere fece la solita finta di vendere Mediaset a Murdoch, e fu autorevolmente dissuaso da sinistra in nome dell'«italianità» della tv. Risultato: il conflitto d'interessi è sempre lì, intatto. E ora rischia addirittura di decuplicarsi. E non per colpa di Berlusconi, che non ha mosso un dito. Ma perché - se non giungeranno smentite chiare e inequivocabili – il centrosinistra lo implora di entrare in Telecom. Ma non si era detto che doveva uscire da Mediaset?
Marco Travaglio, dalla sua rubrica "Uliwood Party" su L'Unità del 5 aprile 2007
Fonte: http://www.vivamarcotravaglio.splinder.com/post/11662287/
Mi piacerebbe avere tempo di commentare a fondo la vicenda, ma non ne ho e voglio solo aggiungere un paio di commenti.
Primo, ribadisco un concetto che trascurano tutti i politici: la rete telefonica è stata costruita con soldi pubblici, quindi nostri, e DEVE restare pubblica. Smettiamola di riempirci di parole senza senso come libero mercato solo perchè va di moda. Non può essere venduta al primo finanziere di turno che ne sfrutterà i profitti a scapito del servizio.
Secondo: è una vergogna avere grandi imprenditori e finanzieri talmente corrotti e immorali da far quasi desiderare che siano degli stranieri a controllare i nostri servizi pubblici: perlomeno questi eviteranno i clientelismi e i giochi di potere che in Italia sono il pane quotidiano. Ma mi domando: a questo punto non faremmo prima a importare anche i politici, magari dai paesi del nord europa?
Gli elettori dell'Unione, si sa, sono nati per soffrire. Ma qui si esagera. Un anno fa, in piena campagna elettorale, i leader erano tutti impegnati a giurare che stavolta non si sarebbero dimenticati del conflitto d'interessi. Avrebbero smantellato la Gasparri, insieme a tutte le altre leggi vergogna. Avrebbero fatto l'antitrust per levare almeno una rete a Mediaset (come da sentenze della Consulta) e per abbassare i tetti pubblicitari. Ora si legge che Berlusconi sarebbe sotto assedio perché un pezzo di Unione e alcuni ministri del governo Prodi vorrebbero tanto che lanciasse un'offerta per Telecom, per sbarrare la strada ai terribili stranieri, americani o messicani. Come se in Messico e in America esistesse qualcosa di peggio dei «capitani coraggiosi» Colaninno, Gnutti e Consorte che la comprarono nel '99 a debito, cioè coi soldi della banche, e ne uscirono nel 2001 con plusvalenze da paura, per rivenderla a Trucchetti Provera che a sua volta la comprò coi soldi delle banche e la pagò coi soldi della Telecom medesima. Cioè dei piccoli e medi azionisti. Risultato: un'azienda sana nel '99 oggi ha 43 miliardi di euro di debiti e qualche decina di dirigenti ed ex dirigenti inquisiti o arrestati per spionaggio, associazione a delinquere e altre amenità.
Fermo restando che la rete telefonica è stata costruita con soldi nostri e dunque dovrebbe restare pubblica, è certo che anche un compratore delle Isole Andamane garantisce livelli di managerialità e di eticità nettamente superiori a quelli degli ultimi italianissimi controllori. Sappiamo bene a che cosa pensano i politici italiani quando difendono la «italianità» di qualcosa. «Il patriottismo - diceva Samuel Johnson, come ricorda Bill Emmott sul Corriere - è l'ultimo rifugio del mascalzoni».
L'ultima volta che la casta politica, col governatore Fazio al seguito, difese l’«italianità della banche», fu per coprire le scalate illecite dei vari Fiorani, Gnutti, Ricucci, Coppola, Consorte, Sacchetti. Poi si scoprì che Fiorani derubava i correntisti della Popolare di Lodi, e ambiva a fare altrettanto con quelli dell'Antonveneta. Se passa lo straniero in Telecom, sarà più difficile piazzargli i soliti famigli, portaborse, spioni, fidanzate, amanti, figli e figliocci di regime: questo è il problema.
Il ministro Paolo Gentiloni dichiara al Sole-24 ore che, se nascerà una cordata alternativa a quella americana, non verranno posti paletti a Mediaset: «II governo è favorevolissimo a che Mediaset diversifichi l'impegno», purché non acquisisca una quota di controllo perché la Gasparri lo vieterebbe. Risulta che Piero Fassino abbia dichiarato a Sky che «Mediaset è un operatore del settore e quindi può fare un'offerta». Il Foglio parla di «incoraggiamenti dalemiani» a Berlusconi, e alcune dichiarazioni del senatore Nicola Latorre vanno in questa direzione. Confalonieri se la ride: «Ora il centrosinistra fa il tifo per Mediaset e si appella a Berlusconi in nome della italianità di Telecom... Fanno il tifo. La verità è che siamo funzionali al loro progetto loro progetto perché alle banche italiane servirebbe un socio industriale per Telecom». E già detta le condizioni: «Gentiloni faccia il bravo: investire nei telefoni vuoi dire metterci tanti soldi, quindi bisogna che Mediaset non ne perda nel comparto tv».
Forse qualcuno dimentica che anche le aziende telefoniche, come quelle tv, operano in regime di concessione dallo Stato, dunque Berlusconi è ineleggibile già in base alla legge del 1957, e lo sarebbe doppiamente se entrasse nella telefonia. Salvo perpetuare lo spettacolo pietoso di un tizio che, al governo o in Parlamento, dà le concessioni a se stesso (e nega le frequenze a chi non fa parte della banda, tipo Di Stefano, che nel '99 ha vinto la concessione per Europa7, ma non può trasmettere perché Rete4 continua a trasmettere su terrestre, in perenne proroga).
Viene in mente quel che accadde nel 1995, quando il Cavaliere fece la solita finta di vendere Mediaset a Murdoch, e fu autorevolmente dissuaso da sinistra in nome dell'«italianità» della tv. Risultato: il conflitto d'interessi è sempre lì, intatto. E ora rischia addirittura di decuplicarsi. E non per colpa di Berlusconi, che non ha mosso un dito. Ma perché - se non giungeranno smentite chiare e inequivocabili – il centrosinistra lo implora di entrare in Telecom. Ma non si era detto che doveva uscire da Mediaset?
Marco Travaglio, dalla sua rubrica "Uliwood Party" su L'Unità del 5 aprile 2007
Fonte: http://www.vivamarcotravaglio.splinder.com/post/11662287/
sabato 7 aprile 2007
Noam Chomsky - Le minacce all'Iran
Per problemi personali non potrò aggiornare il blog nelle prossime settimane, ma ho pensato di continuare segnalandovi alcuni articoli che ritengo meritevoli di essere letti. Dopo l'ottima analisi sulle acque minerali, di cui spero abbiate fatto tesoro, ecco un articolo dell'intellettuale Noam Chomsky, forse il maggior conoscitore della storia e delle politiche statunitensi, in cui parla della situazione sempre più tesa tra Washington e l'Iran. Buona lettura, e scusate la (spero breve) pausa.
L’influenza iraniana nella “mezzaluna” sfida il controllo americano. Per una casualità geografica, le maggiori risorse petrolifere mondiali sono soprattutto nelle aree sciite del Medio Oriente: l’Iraq meridionale, le regioni adiacenti dell’Arabia Saudita e l’Iran, con alcune delle maggiori riserve di gas naturale. Il peggior incubo di Washington sarebbe una alleanza sciita che controlli la maggior parte del petrolio mondiale, libera e indipendente dagli Stati Uniti.
L’escalation delle minacce da parte di Washington contro l’Iran è sostenuta dalla determinazione di assicurarsi il controllo delle risorse energetiche della regione.
Nel Medio Oriente ricco di risorse energetiche solo due paesi non si sono sottomessi alle richieste principali di Washington: Iran e Siria. Di conseguenza entrambi sono nemici, l’Iran di gran lunga il più importante. Come era di norma durante la guerra fredda, il ricorso alla violenza è regolarmente giustificato come reazione alla maligna influenza del principale nemico, spesso sulla base dei pretesti più inconsistenti. In modo prevedibile, visto che Bush invia più truppe in Iraq, affiorano in superficie racconti di interferenze iraniane negli affari interni dell’Iraq – un paese per altri aspetti libero da ogni interferenza straniera – sul tacito presupposto che Washington governi il mondo. Nella mentalità da guerra fredda di Washington, Teheran è raffigurata come l’apice della cosiddetta mezzaluna sciita che si allunga dall’Iran fino agli Hezbollah in Libano, attraverso le regioni sciite dell’Iraq meridionale e la Siria. Ed in modo altrettanto prevedibile, il “potenziamento” in Iraq e l’escalation delle minacce e delle accuse contro l’Iran è accompagnato da una volontà riluttante a partecipare ad una conferenza con le potenze della regione, con un’agenda limitata all’Iraq.
Presumibilmente questo minimo gesto di diplomazia è inteso ad attenuare le paure crescenti provocate dall’intensificarsi dell’aggressività di Washington.
A queste preoccupazioni viene dato nuovo valore da uno studio analitico sull’ “effetto Iraq” degli esperti di terrorismo Peter Bergen e Paul Cruickshank, che ha dimostrato come la guerra in Iraq “abbia incrementato di sette volte il terrorismo a livello mondiale”. Un “effetto Iran” potrebbe essere ancora più grave.
Per gli Stati Uniti, la questione primaria del Medio Oriente è stata e resta il reale controllo delle sue ineguagliabili risorse energetiche. L’accesso è una questione secondaria. Una volta che il petrolio è sul mare va dovunque. Il controllo è inteso come strumento per la supremazia globale. L’influenza iraniana nella “mezzaluna” sfida il controllo americano. Per una casualità geografica, le maggiori risorse petrolifere mondiali sono soprattutto nelle aree sciite del Medio Oriente: l’Iraq meridionale, le regioni adiacenti dell’Arabia Saudita e l’Iran, con alcune delle maggiori riserve di gas naturale. Il peggior incubo di Washington sarebbe una alleanza sciita che controlli la maggior parte del petrolio mondiale, libera e indipendente dagli Stati Uniti.
Questo blocco, se dovesse emergere, potrebbe persino entrare a far parte dell’Asian Energy Security Grid con base in Cina. L’Iran potrebbe essere il membro più importante. Se i pianificatori di Bush provocassero questa situazione, indebolirebbero seriamente la posizione di dominio mondiale degli Stati Uniti.
Per Washington, l’offesa più grave di Teheran è stata la sua sfida, a risalire dall’ abbattimento del regime dello Scià nel 1979 e dalla crisi degli ostaggi all’ambasciata americana. Come ritorsione, Washington si è rivolta verso Saddam Hussein per aiutarlo nella sua aggressione contro l’Iran che ha lasciato sul campo centinaia di migliaia di morti. Dopo sono state applicate sanzioni letali e, con Bush, il rifiuto degli sforzi diplomatici iraniani. Nel luglio scorso, Israele ha invaso il Libano, la quinta invasione dal 1978. Come prima l’appoggio americano è stato un fattore critico, i pretesti appena sottoposti a valutazione critica, sono crollati in breve tempo, e le conseguenze per il popolo libanese sono gravi. Fra le ragioni dell’invasione di Israele e USA c’è che i razzi degli Hezbollah potrebbero costituire un deterrente all’attacco contro l’Iran di USA e Israele. Nonostante le minacce di un attacco militare, ritengo improbabile che l’amministrazione Bush attacchi l’Iran. L’opinione pubblica americana e quella mondiale vi si oppongono in modo determinante. E sembra che anche l’intelligence e le forze militari americane si oppongano. L’Iran non può difendersi da un attacco americano, ma può rispondere in altri modi, fra questi suscitando ancora più caos in Iraq. A questo proposito ci sono avvertimenti molto più gravi, fra questi lo storico inglese Corelli Barnett scrive che “un attacco all’Iran scatenerebbe realmente la terza guerra mondiale”.
Ciononostante, un predatore diventa ancora più pericoloso, e meno prevedibile, quando è ferito. Nella disperazione di salvare qualcosa, l’amministrazione potrebbe azzardare qualche disastro ancora più grande. L’amministrazione Bush ha provocato una catastrofe impensabile in Iraq. Non è stata in grado di stabilirvi uno stato cliente e non può ritirarsi senza affrontare l’eventualità di una perdita di controllo sulle risorse energetiche del Medio Oriente. Frattanto Washington potrebbe cercare di destabilizzare l’Iran dall’interno. La composizione etnica in Iran è complessa; gran parte della popolazione non è persiana. Sono presenti tendenze secessioniste ed è probabile che Washington stia cercando di istigarle – in Khuzestan sul Golfo, per esempio, dove si concentra il petrolio iraniano, una regione principalmente araba, non persiana.
L’escalation di minacce serve anche a far pressione sugli altri per unirsi agli sforzi americani nel soffocare economicamente l’Iran, con prevedibile successo in Europa. Un’altra prevedibile conseguenza, presumibilmente voluta, è di indurre la leadership iraniana ad essere sempre più repressiva, fomentando il disordine e indebolendo i riformisti.
E’ anche necessario demonizzare la leadership. In occidente, ogni dichiarazione violenta del presidente Amadinejad è stata diffusa dalle testate dei giornali, tradotta in modo dubbio. Ma Amadinejad non ha alcun controllo sulla politica estera, che è nelle mani del suo superiore, il supremo leader Ayatollah Ali Khamenei. I media statunitensi tendono ad ignorare le dichiarazioni di Khamenei, soprattutto se hanno carattere conciliativo. Si riportano ampiamente le dichiarazioni di Amadinejad quando dice che Israele non dovrebbe esistere –ma c’è silenzio quando Khamenei dichiara che l’Iran supporta la posizione della Lega Araba su Israele – Palestina, invocando la normalizzazione delle relazioni con Israele, se accetta l’accordo internazionale sulla soluzione dei due stati. L’invasione USA dell’Iraq ha potenzialmente insegnato all’Iran a sviluppare un deterrente nucleare. Il messaggio è stato che gli Stati Uniti attaccano a loro piacimento, quando l’obiettivo è indifeso. Adesso l’Iran è circondato dalle forze statunitensi in Afghanistan, Iraq, Turchia e nel Golfo Persico, ed è vicino a stati dotati di armi nucleari quali il Pakistan ed Israele, la superpotenza della regione, grazie al supporto americano.
Nel 2003 l’Iran si è dichiarato disposto a trattare su tutte le questioni in sospeso, comprese le politiche nucleari e le relazioni israelo-palestinesi. La risposta di Washington è stata di critica al diplomatico svizzero che presentava l’offerta. L’anno successivo, l’Unione Europea e l’Iran hanno raggiunto un accordo con il quale l’Iran avrebbe sospeso la produzione di uranio arricchito; in cambio l’Unione Europea avrebbe fornito “solide garanzie sulle questioni della sicurezza” – codice per le minacce di Stati Uniti e Israele di bombardare l’Iran.
A quanto pare per la pressione degli Stati Uniti, l’Europa non ha mantenuto l’accordo. Quindi l’Iran ha ricominciato con l’uranio arricchito. Un interesse autentico a prevenire lo sviluppo di armi nucleari in Iran, avrebbe portato Washington ad attuare l’accordo con l’Unione Europea, ad accettare importanti negoziati e ad unirsi agli altri verso l’integrazione dell’Iran nel sistema economico internazionale.
Noam Chomsky - 10 Marzo 2007 - The Guardian
Fonte e traduzione: www.zmag.org/italy/chomsky-usapredatore.htm
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L’influenza iraniana nella “mezzaluna” sfida il controllo americano. Per una casualità geografica, le maggiori risorse petrolifere mondiali sono soprattutto nelle aree sciite del Medio Oriente: l’Iraq meridionale, le regioni adiacenti dell’Arabia Saudita e l’Iran, con alcune delle maggiori riserve di gas naturale. Il peggior incubo di Washington sarebbe una alleanza sciita che controlli la maggior parte del petrolio mondiale, libera e indipendente dagli Stati Uniti.
L’escalation delle minacce da parte di Washington contro l’Iran è sostenuta dalla determinazione di assicurarsi il controllo delle risorse energetiche della regione.
Nel Medio Oriente ricco di risorse energetiche solo due paesi non si sono sottomessi alle richieste principali di Washington: Iran e Siria. Di conseguenza entrambi sono nemici, l’Iran di gran lunga il più importante. Come era di norma durante la guerra fredda, il ricorso alla violenza è regolarmente giustificato come reazione alla maligna influenza del principale nemico, spesso sulla base dei pretesti più inconsistenti. In modo prevedibile, visto che Bush invia più truppe in Iraq, affiorano in superficie racconti di interferenze iraniane negli affari interni dell’Iraq – un paese per altri aspetti libero da ogni interferenza straniera – sul tacito presupposto che Washington governi il mondo. Nella mentalità da guerra fredda di Washington, Teheran è raffigurata come l’apice della cosiddetta mezzaluna sciita che si allunga dall’Iran fino agli Hezbollah in Libano, attraverso le regioni sciite dell’Iraq meridionale e la Siria. Ed in modo altrettanto prevedibile, il “potenziamento” in Iraq e l’escalation delle minacce e delle accuse contro l’Iran è accompagnato da una volontà riluttante a partecipare ad una conferenza con le potenze della regione, con un’agenda limitata all’Iraq.
Presumibilmente questo minimo gesto di diplomazia è inteso ad attenuare le paure crescenti provocate dall’intensificarsi dell’aggressività di Washington.
A queste preoccupazioni viene dato nuovo valore da uno studio analitico sull’ “effetto Iraq” degli esperti di terrorismo Peter Bergen e Paul Cruickshank, che ha dimostrato come la guerra in Iraq “abbia incrementato di sette volte il terrorismo a livello mondiale”. Un “effetto Iran” potrebbe essere ancora più grave.
Per gli Stati Uniti, la questione primaria del Medio Oriente è stata e resta il reale controllo delle sue ineguagliabili risorse energetiche. L’accesso è una questione secondaria. Una volta che il petrolio è sul mare va dovunque. Il controllo è inteso come strumento per la supremazia globale. L’influenza iraniana nella “mezzaluna” sfida il controllo americano. Per una casualità geografica, le maggiori risorse petrolifere mondiali sono soprattutto nelle aree sciite del Medio Oriente: l’Iraq meridionale, le regioni adiacenti dell’Arabia Saudita e l’Iran, con alcune delle maggiori riserve di gas naturale. Il peggior incubo di Washington sarebbe una alleanza sciita che controlli la maggior parte del petrolio mondiale, libera e indipendente dagli Stati Uniti.
Questo blocco, se dovesse emergere, potrebbe persino entrare a far parte dell’Asian Energy Security Grid con base in Cina. L’Iran potrebbe essere il membro più importante. Se i pianificatori di Bush provocassero questa situazione, indebolirebbero seriamente la posizione di dominio mondiale degli Stati Uniti.
Per Washington, l’offesa più grave di Teheran è stata la sua sfida, a risalire dall’ abbattimento del regime dello Scià nel 1979 e dalla crisi degli ostaggi all’ambasciata americana. Come ritorsione, Washington si è rivolta verso Saddam Hussein per aiutarlo nella sua aggressione contro l’Iran che ha lasciato sul campo centinaia di migliaia di morti. Dopo sono state applicate sanzioni letali e, con Bush, il rifiuto degli sforzi diplomatici iraniani. Nel luglio scorso, Israele ha invaso il Libano, la quinta invasione dal 1978. Come prima l’appoggio americano è stato un fattore critico, i pretesti appena sottoposti a valutazione critica, sono crollati in breve tempo, e le conseguenze per il popolo libanese sono gravi. Fra le ragioni dell’invasione di Israele e USA c’è che i razzi degli Hezbollah potrebbero costituire un deterrente all’attacco contro l’Iran di USA e Israele. Nonostante le minacce di un attacco militare, ritengo improbabile che l’amministrazione Bush attacchi l’Iran. L’opinione pubblica americana e quella mondiale vi si oppongono in modo determinante. E sembra che anche l’intelligence e le forze militari americane si oppongano. L’Iran non può difendersi da un attacco americano, ma può rispondere in altri modi, fra questi suscitando ancora più caos in Iraq. A questo proposito ci sono avvertimenti molto più gravi, fra questi lo storico inglese Corelli Barnett scrive che “un attacco all’Iran scatenerebbe realmente la terza guerra mondiale”.
Ciononostante, un predatore diventa ancora più pericoloso, e meno prevedibile, quando è ferito. Nella disperazione di salvare qualcosa, l’amministrazione potrebbe azzardare qualche disastro ancora più grande. L’amministrazione Bush ha provocato una catastrofe impensabile in Iraq. Non è stata in grado di stabilirvi uno stato cliente e non può ritirarsi senza affrontare l’eventualità di una perdita di controllo sulle risorse energetiche del Medio Oriente. Frattanto Washington potrebbe cercare di destabilizzare l’Iran dall’interno. La composizione etnica in Iran è complessa; gran parte della popolazione non è persiana. Sono presenti tendenze secessioniste ed è probabile che Washington stia cercando di istigarle – in Khuzestan sul Golfo, per esempio, dove si concentra il petrolio iraniano, una regione principalmente araba, non persiana.
L’escalation di minacce serve anche a far pressione sugli altri per unirsi agli sforzi americani nel soffocare economicamente l’Iran, con prevedibile successo in Europa. Un’altra prevedibile conseguenza, presumibilmente voluta, è di indurre la leadership iraniana ad essere sempre più repressiva, fomentando il disordine e indebolendo i riformisti.
E’ anche necessario demonizzare la leadership. In occidente, ogni dichiarazione violenta del presidente Amadinejad è stata diffusa dalle testate dei giornali, tradotta in modo dubbio. Ma Amadinejad non ha alcun controllo sulla politica estera, che è nelle mani del suo superiore, il supremo leader Ayatollah Ali Khamenei. I media statunitensi tendono ad ignorare le dichiarazioni di Khamenei, soprattutto se hanno carattere conciliativo. Si riportano ampiamente le dichiarazioni di Amadinejad quando dice che Israele non dovrebbe esistere –ma c’è silenzio quando Khamenei dichiara che l’Iran supporta la posizione della Lega Araba su Israele – Palestina, invocando la normalizzazione delle relazioni con Israele, se accetta l’accordo internazionale sulla soluzione dei due stati. L’invasione USA dell’Iraq ha potenzialmente insegnato all’Iran a sviluppare un deterrente nucleare. Il messaggio è stato che gli Stati Uniti attaccano a loro piacimento, quando l’obiettivo è indifeso. Adesso l’Iran è circondato dalle forze statunitensi in Afghanistan, Iraq, Turchia e nel Golfo Persico, ed è vicino a stati dotati di armi nucleari quali il Pakistan ed Israele, la superpotenza della regione, grazie al supporto americano.
Nel 2003 l’Iran si è dichiarato disposto a trattare su tutte le questioni in sospeso, comprese le politiche nucleari e le relazioni israelo-palestinesi. La risposta di Washington è stata di critica al diplomatico svizzero che presentava l’offerta. L’anno successivo, l’Unione Europea e l’Iran hanno raggiunto un accordo con il quale l’Iran avrebbe sospeso la produzione di uranio arricchito; in cambio l’Unione Europea avrebbe fornito “solide garanzie sulle questioni della sicurezza” – codice per le minacce di Stati Uniti e Israele di bombardare l’Iran.
A quanto pare per la pressione degli Stati Uniti, l’Europa non ha mantenuto l’accordo. Quindi l’Iran ha ricominciato con l’uranio arricchito. Un interesse autentico a prevenire lo sviluppo di armi nucleari in Iran, avrebbe portato Washington ad attuare l’accordo con l’Unione Europea, ad accettare importanti negoziati e ad unirsi agli altri verso l’integrazione dell’Iran nel sistema economico internazionale.
Noam Chomsky - 10 Marzo 2007 - The Guardian
Fonte e traduzione: www.zmag.org/italy/chomsky-usapredatore.htm
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